Logos
e Brahman: raffronto tra il pensiero di Eraclito e le dottrine indiane
di
Ada Somigliana
da
«Sophia», gennaio-giugno 1959, pp. 87-94.
Gli
studiosi sono, per lo più, d'accordo sul valore che ha in Eraclito il
termine Logos da un punto di vista generale; ma le opinioni
divergono, quando si scenda al particolare e si debba spiegare in quali
rapporti esso si trovi con determinati concetti espressi dal filosofo
che, si comprende bene, debbono essergli collegati
.
S. Kirk, in un suo recente saggio nella Revue philosophique,
scrive: «Logos si trova nel fr. 1, nel fr. 2 e nel fr. 50. La
difficoltà è che non sappiamo ciò che Logos voglia dire in
questo senso». E continua: «Si tratta di qualche cosa che si può
intendere e di cui si può sentir parlare (fr. 1), o di qualche cosa che
si può ascoltare (fr. 50), o seguire e alla quale si obbedisce (fr. 2);
tutte le cose avvengono secondo essa (fr. 1), essa è comune (ciò vuol
dire, probabilmente, presente in tutte le cose, dunque afferrabile da
tutti gli uomini) (fr. 2) etc.»; e conclude affermando che Logos
sembra essere qualche cosa come «la verità delle cose».
Il
moderno esegeta è riuscito a rilevare tutte le caratteristiche
dell'Ente, che domina sovrano nella costruzione eraclitea; ma egli non
ci spiega in quale connessione esse siano tra loro. Infatti questo non
si rileva facilmente dai frammenti, considerati a sé, tanto più che la
bivalenza di talune espressioni della lingua greca dà adito a diverse
interpretazioni. Il neutro hén, per esempio, può esser tradotto
"una sola cosa", come nel fr. 41 (Essere una cosa sola il
sapere: conoscere l'intelletto, che governa tutto nel tutto), ma può
essere tradotto anche "l'Uno". Così nel fr. 29: «I migliori
scelgono l'Uno invece di tutte le cose, gloria eterna invece di
soddisfazioni mortali». e nel fr. 50: «Non a me, ma al Logos
dando ascolto, conviene riconoscere che l'Uno è tutte le cose», e nel
fr. 57: «Dei più e maestro Esiodo; ritengono ch'egli tutto sapesse,
lui che non conosceva il giorno e la notte: sono infatti l'Uno».
Con
il cambiamento di una sola parola muta profondamente il valore ed il
significato dei tre frammenti. Il filosofo non ci parla, in forma
misteriosa, di una cosa non facilmente identificabile, ma dice
chiaramente: l'Uno. E poiché questo Uno è tutte le cose
(fr. 50), poiché questo Uno rappresenta la gloria eterna (fr.
29) ed in esso s'identificano i contrari (fr. 57), non abbiamo difficoltà
a riconoscere quell'entità metafisica ch'è al centro della
speculazione eraclitea, presente in tutti gli esseri ed in tutte le cose
e realtà spirituale di ciascuno di noi.
Essa
viene dal filosofo chiamata con differenti nomi, secondo il suo diverso
modo di manifestarsi nell'universo e nella psiche. Tra questi nomi vi è
quello di lògos, che letteralmente significa Parola; ma
non una parola qualunque, perché in essa è contenuta l'idea di qualche
cosa di eletto e di spirituale, e veniva usata fin dall'epoca di Omero
ad esprimere un'attività dello spirito.
Tale
termine trova il suo equivalente in un nome largamente usato nel
linguaggio metafisico dell'India, per indicare un'entità che ha le
stesse caratteristiche del Logos, e questo nome è Brahman.
Esso trae origine dal culto sacrificale e, nei testi vedici più
antichi, aveva il valore di "parola sacra" con speciale
riferimento al suono "Aum" (om), che i sacerdoti, nel
cantare gli inni durante i sacrifici, ripetevano dopo ciascun verso.
Poiché si attribuiva grande potenza al sacrificio e si riteneva che la
parola sacramentale pronunciata dal sacerdote operasse con magico potere
su tutto l'universo, così il Primo Principio si metteva in
relazione d'identità con la formula sacrificale ed il termine Brahman
veniva usato, nella speculazione teosofica, quale punto d'attacco
dell'idea per giungere alla conoscenza dell'Inconoscibile.
Ma
la genesi di questo nome ha solo un interesse indiretto ai fini del
nostro studio; quello ch'è importante per ora precisare h il
parallelismo dei due termini Logos e Brahman, che hanno
entrambi il significato di Parola con un certo valore di sacralità
e stanno entrambi ad indicare l'Ente preso in senso astratto e
quale espressione di supremo Vero. Quando, come ho avuto
occasione di osservare altrove, si tenga presente che questa entità
divina è cosmica e psichica nel tempo stesso, e che l'essere umano,
secondo il nostro filosofo, è compenetrato dallo spirito eterno, il
quale rappresenta il suo "Io" trascendentale ed assoluto, non
è facile rispondere al quesito che il Kirk si pone riguardo al valore
del termine Logos nei su citati frammenti.
Il
primo di essi si basa sull'importanza che il filosofo attribuiva alla
conoscenza del Logos, particolare che non è sfiggito al Kirk e
che trova, come il resto, piena rispondenza nelle dottrine dell'antico
Oriente. Infatti, secondo il pensiero indiano, il tempo ha carattere
ciclico ed il mondo storico e le forme che si sviluppano nel tempo,
viste sul piano dei ritmi cosmici, non hanno valore, perché mancano di
durata e si definiscono per l'esistenza dei contrari Ma, se si considera
che il tempo e l'eternità (kâlâc-âkalaçca, tempo e senza
tempo) sono due aspetti di un unico ente (aspetto manifesto e non
manifesto, che riunisce in sé tutte le polarità e le opposizioni, chi
accede ad esso, realtà unica che trascende «il giorno e la notte»,
ossia trascende i contrari, che sono l'espressione della limitatezza e
della sofferenza, «passa al di là del dolore».
«Chi
vede [questa verità] non vede la morte, né la malattia; né il
dolore; chi vede, vede il Tutto, raggiunge il Tutto da
ogni parte. Egli diventa unico, diventa triplice, settemplice e nonuplo,
ed inoltre vien ricordato ch'egli è undici e centoundici e ventimila»
Ma
questa conoscenza, che viene considerata il più alto vertice del sapere
e via di salvazione, non è agevole né accessibile a tutti; solo pochi
eletti possono pervenire ad essa attraverso l'insegnamento di un maestro
che «li liberi dalle bende dell'ignoranza» e l'aiuto della fede perché
«quando uno, invero, ha fede, allora pensa. Chi non ha fede, non pensa».
Pure
Eraclito quando, nel primo frammento, accenna al Logos come a «qualche
cosa di cui si può sentir parlare» (Kirk), allude a questa dottrina
metafisica, ch'egli si accingeva a spiegare nel suo libro. Nel fr. che
stiamo esaminando infatti si legge:
«E
la Parola, che pure è sempre quella, gli uomini non la intendono né
prima di averla ascoltata, né ascoltandola per la prima volta.
Infatti pure avvenendo ogni cosa secondo la Parola, inesperti ne
sembrano anche quelli che hanno esperienza di idee e fatti, quali io
espongo, spiegando ciascuna cosa secondo natura ed indicando come sia».
«Sempre
quella», perché eterna, come giustamente intende lo Zeller, e pure
perché costantemente presente in tutte le cose, di cui costituisce
l'unica essenza. Ma a questa importante verità metafisica gli uomini
non sono capaci di arrivare da soli, e non sanno neppure comprenderla
quando venga loro insegnata per la prima volta.
Inoltre,
benché tutto avvenga attraverso questo Ente, il quale
rappresenta la forza universale operante sullo svolgimento di tutti i
fenomeni naturali, non lo conoscono neppure quelli che hanno
dimestichezza con tale genere di studi (e qui forse Eraclito vuole
alludere ai filosofi della Natura, che indagavano sui problemi
della generazione e dissoluzione). Ad essi è rivolto l'insegnamento
dell'Efesio, non agli altri uomini, che non sono animati dal desiderio
di conoscere la verità, di cui non comprendono il valore ed il
significato, indifferenti ed inconsci, quasi dormienti.
«Agli
altri uomini sfuggono le cose che fanno quando sono desti, come non
sanno quanto compiono dormienti».
Nella
seconda parte del frammento ho seguito la traduzione dello Zeller (da
cui si discosta il Mazzantini) e a spiegarne le ragioni mi si permetta
una breve digressione.
Eraclito
considera il sonno da un punto di vista metafisico: l'uomo, durante il
sonno, separato dal mondo sensibile, vive d'intensa vita spirituale,
alimentandosi alla luce della propria anima, e crea sogni e si
immedesima con l'Assoluto. In tale stato egli supera questo mondo
d0illusorie differenziazioni, ritrova il Vero e con esso la suprema
beatitudine. È una condizione simile a quella riservata allo spirito
umano, quando la morte abbia spezzato i legami con la realtà empirica:
per questo l'uomo dormendo «si accosta a chi è morto» (fr. 26). Poi,
al risveglio, perde coscienza di quanto è avvenuto durante il sonno e
dimentica la luce della verità, per lasciarsi nuovamente ingannare
dall'apparenza delle cose labili e transitorie («Morte sono le cose che
vediamo appena desti», fr. 21). Per questa ragione lo stato di veglia,
dal punto di vista metafisico, è simile allo stato di sonno dal punto
di vista fisico («svegliato si accosta a chi dorme», fr. 26). Ora
l'espressione «Non sanno quanto compiono dormienti», del fr. che
stiamo esaminando, si riferisce all'oblio per l'uomo, durante lo stato
di veglia, di quanto era avvenuto mentre dormiva.
Nel
corso del libro il filosofo parlerà poi ripetutamente di
"dormienti" in senso metaforico. Nel fr. 75 li chiama «cooperatori
inconsapevoli dell'ordine cosmico», nel fr. 73 ammonisce che «non
bisogna parlare ed agire come dormienti», e nel fr. 89 afferma che «per
i pienamente desti esiste un solo mondo sociale; i dormienti si
ripiegano ciascuno verso un proprio mondo personale».
Questo
ultimo si spiega più facilmente congiungendolo con il fr. 2, che
tradurrei:
«Bisogna
seguire ciò ch'è comune. Ma, pure essendo la Parola comune a
tutti, i più vivono come se avessero una ragione personale«.
Il
termine xynós non indica qui solamente, in senso generico, «presente
in tutte le cose e quindi afferrabile da tutti gli uomini», come pensa
il Kirk, ma piuttosto comune a tutti gli uomini in quanto presente nella
loro anima, con la quale s'identifica, ed espressione di Verità
vivente in loro (fr. 45, fr. 115 e fr. 119).
Per
questa ragione gli uomini debbono considerarsi un tutto sociale, non
viventi una vita indipendente ed esclusiva. Quindi le idee da seguire sono
quelle che, essendo comuni a tutti, debbono essere considerate vera
manifestazione del thèion, non espressione personale ed inganno
dei sensi.
Si
comprende quindi come "per i pienamente desti", cioè per
coloro che hanno capito il vero valore della vita, nella quale l'umanità
rappresenta un tutto unico ed inscindibile (qualche cosa di più che un
vincolo di fratellanza), esista "un solo mondo sociale" e
"i dormienti", che non sono consapevoli del legame che li
unisce ai loro simili, si ripieghino ciascuno verso un loro mondo
esclusivo.
Poiché,
come abbiamo visto, il nostro filosofo attribuisce somma importanza alla
Sapienza, intendendo per sapienza la "Metafisica dell'Essere",
nella quale egli vede la soluzione di tutti i problemi della vita
universa, ne consegue ch'egli giudica prevalentemente i suoi simili
secondo l'interesse che manifestano per essa.
Dunque
vediamo da una parte i pochi saggi che ricercano la Verità e dall'altra
«oi pollòi», i quali o si curano esclusivamente delle
soddisfazioni materiali che la vita può offrire loro e «si rimpinzano
come capi di bestiame»; o danno ascolto alle leggende diffuse dai
cantori del popolo e seguono le antiche tradizioni, senza valutarne la
consistenza e la veracità.
Non
bisogna quindi prendere a maestro il volgo perché «oi pollòi kakòi,
olígoi de agathòi» (fr. 104). E anche in questa affermazione la
parola del sommo filosofo greco suona concorde con quella dell'antico
savio d'Oriente:
«Che
il brahmano, nella sua saggezza, avendolo riconosciuto [l'Uno] realizzi
la Scienza. Che il suo pensiero non segua le idee della folla: le
stesse sono parole vacue«.
Come
abbiamo visto, i punti di contatto tra la speculazione eraclitea e
quella indiana non sono pochi né trascurabili. Dal concetto dell'Uno-tutto
all'identità dell'anima universale con quella individuale, dalla Teoria
degli Opposti al loro superamento attraverso la conoscenza
dell'Essere, dall'importanza dell'introspezione al disprezzo per coloro
che ignorano le supreme verità metafisiche, dalla dottrina delle
"due vie" a quella dello stato dello spirito durante il sonno,
abbiamo tutta una catena di concordanze che involgono l'intero sistema,
le quali, per il loro particolare carattere, non possono essere effetto
del caso e non vanno quindi sottovalutate.
E
ritengo utile insistere su questo punto perché, oltre a ragioni di
metodo, ci sono dei fattori psicologici che, nonostante il nostro sforzo
verso l'oggettività, ci spingono a non tenere quelle concordanze nella
dovuta considerazione. Anzitutto il nostro orgoglio di Occidentali
avvezzi a vedere in Grecia la culla del pensiero: poi il fatto che il
mistero di Eraclito è un mito che amiamo. Intorno ad esso si sono
misurati i nostri migliori ingegni e le loro opere, alcune delle quali
apprezzabilissime per indagine storica e profondità di pensiero,
qualora mutasse l'orientamento critico, dovrebbero per buona parte esser
rifatte su di un piano completamente diverso. Infine i frammenti del
filosofo, se esaminati alla luce del pensiero vedico, si compongono in
unità intorno ad un nucleo centrale, l'Uno (il Logos), e tutto
diviene chiaro, semplice, facile; troppo semplice e troppo facile in
rapporto all'immagine che di Eraclito, come osserva il Kirk, ci eravamo
creati, prestandogli i termini di una speculazione posteriore.
La
sua figura, ad ogni modo, non ne uscirebbe menomata, perché era più
difficile per lui, educato nell'ambiente greco del suo tempo, penetrare
nel vero spirito del pensiero orientale, di quanto non sia oggi per noi
comprendere i suoi frammenti. Dobbiamo infine tenere presente che per
opera sua il primo germe della speculazione aria, che doveva poi nel
paese d'origine subire un processo involutivo, prendeva invece in
Occidente grande sviluppo e dava frutti preziosi.
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