Nisargadatta
Nisargadatta
Maharaj, al secolo Maruti Kampli, appartiene a una linea di trasmissione
marathi del Vedanta monistico, che si fa risalire al Mahatma
Dattatreya. Tra i veggenti di epoca vedica, Datta avrebbe
istituito il primo lignaggio spirituale (parampara), che nel Maharastra
è noto come navnath sampradaya, la "scuola dei nove", cui fu
affiliato il maestro di Maharaj e, alla sua morte, lui stesso.
A
Dattatreya sono attribuiti l'omonima innodia Datta o Daksinamurti
Samhita, di cui una versione ridotta è nel Tripura Rahasya , e la
citata Avadhuta Gita, il "Canto del Rinunciante".
Una
tardiva upanisad si potrebbe definire Io sono Quello, e quasi
un'ininterrotta continuazione della parola di Ramana Maharshi, cui
Nisargadatta da più segni appare afratellato.
Entrambi
di origine umile e campagnola, illetterati e padroni di un sola lingua:
il tamili per Ramana, e il marathi per Nisargadatta. Entrambi
"scoperti" da due europei: Paul Brunton, che divulgò il
pensiero di Ramana, e Maurice Frydman che, a Bombay, negli ultimi anni
di una vita segnata da numerose conversioni - da ebreo polacco a monaco
cristiano a swami indù - divenne discepolo e l'interprete di
Nisargadatta, promuovendo la prima edizione in inglese di Io sono Quello
.
A
differenza di Nisargadatta, Ramana non ebbe maestri, non lavorò, non si
sposò. Ragazzino, dopo una tremenda esperienza di alterazione della
coscienza fino alle soglie della morte, abbandonò il villaggio natale e
un richiamo incoercibile lo trasse a un colle, nei pressi di
Tiruvannamalai, celebrato in inni bellissimi, Arunacala, dove visse in
solitaria meditazione e dove in seguito sorse l'asram che prese il suo
nome.
Maruti
invece crebbe in città, e a Khetwadi, nella suburra di Bombay dove
ancor oggi abita, avviò giovanissimo, insieme al fratello, un piccolo
commercio di tabacchi, dando via via il benvenuto a molti figli. Quando
aveva da poco varcato i trent'anni, un avventore, Yashwantrao Baagkar,
lo conduce da Sri Siddharameshwar Maharaj del Navnath sampradaya, e
Maruti sotto la sua guida intraprende una disciplina presto costellata
di esperienze mistiche. L'"esplosione" interiore avviene dopo
tre anni, poco prima della morte del maestro, di cui Maruti assumerà il
cognome. Dopo un periodo di solitario vagabondaggio, il ritorno a
Bombay, l'abbandono definitivo del commercio, e l'inizio dell'ultima
fase, durante la quale lo conobbe Frydman.
Sono
trascorsi trent'anni dalla morte di Ramana, ed ora, anche la vecchia
bocca di Maharaj, a 85 anni, in un corpo assalito dallo stesso male del
Maharshi, si avvia al silenzio.
Forse
il modo meno impervio di accostare Io sono Quello è ripercorrere lo
stesso tragitto del giovane Maruti alle prese con la sua realizzazione
accanto al maestro.
Intontito
dalle pratiche yoga che da qualche tempo gli procurano estasi
sporadiche, visioni e abbagli subitanei, Maruti un giorno si reca da
Maharaj, gli si accoccola ai piedi, e attende. Non sa che quella volta
sarà l'ultima, non solo perché il maestro di lì a poco cesserà di
vivere, ma anche perché ciò che sta per dirgli è la massima
condensazione dell'Advaita Vedanta, e insieme la via diretta
all'esperienza metafisica: "Tu sei il Supremo... agisci in
conformità". E aggiunge: "Credilo con fermezza, non dubitarne
mai, ricordalo senza intermissione". A Maruti non restò che
obbedire. "Continuai la mia solita vita, ma ogni momento libero lo
passavo a ricordare il maestro e le sue parole. Poiché non le ho
dimenticate, mi sono realizzato". Così dice oggi Nisargadatta, a
chi lo interroga sulla sua iniziazione. E scende nella stanza,
mentr'egli parla con sconcertante umiltà del "grande passo",
un silenzio profondo, come quando in un crocchio all'improvviso si
scatena un epilettico e gli astanti, raggelati, si fanno muti. Quando il
vecchio dichiara: "Sono il Supremo", è fatale che qualcuno,
tra gli astanti, lo sogguardi con un'ombra di malcelata ironia, e il
vecchio, sollecito, gli si volge sorridendo: "Lo so, è difficile
crederlo. Ma se ti dico: metti a fuoco l'"io sono", non puoi
esimerti. L'"io sono" è la tua prima percezione al risveglio.
Domandati da dove viene o osservalo quieto. Immancabilmente scoprirai
tutto ciò che non sei: il corpo, i sentimenti, i pensieri, le idee, le
proprietà esterne e interne. Sono tutte auto-identificazioni infedeli.
Per causa loro, ti prendi per ciò che non sei".
"Ma
io, chi sono?".
Per
spiegare l'inspiegabile Maharaj finge di narrare una fiaba:
"Nell'immensità della coscienza appare una luce, un puntolino
veloce che traccia forme, assembra pensieri e sentimenti, idee e
concetti, come la penna sul foglio. Tu sei quel puntolino, e muovendoti
ricrei ogni volta il mondo. Ti arresti, e il mondo scompare. Va' dentro,
e vedrai che quel punto luminoso è l'"io sono", come il
riflesso nel corpo dell'immensità della luce. Solo la luce è, tutto il
resto appare".
"Durante
la veglia, la coscienza si sposta di continuo da una sensazione
all'altra, di percezione in percezione, da un'idea all'altra, senza
fine. La consapevolezza è dell'interezza e della totalità della mente
penetrate direttamente. La mente è come un fiume che scorre nel letto
del corpo, per un momento t'identifichi con un'onda e la chiami "il
mio pensiero". Tutti i tuoi oggetti di coscienza fanno la mente; la
consapevolezza è lo stato in cui la coscienza è colta nella sua
interezza".
L'interrogante
vive, mentre ascolta, una strana esperienza: le parole sono semplici,
non c'è quasi ridondanza nel fraseggiare di Maharaj. Scarse le consuete
metafore vedantine, mute le belle storie della letteratura ascetica.
Campito nella nudità del sistema, il solo apologo di Janaka, alle prese
col suo sogno di mendicante:
-
Quando si svegliò disse al suo maestro, Vasishtha: "Sono io un re
che sogna di essere mendicante o un mendicante che sogna di essere
re?". E il maestro: " Né l'uno né l'altro, sia l'uno che
l'altro. Voi siete e insieme non siete ciò che pensate di essere! Lo
siete perché agite in conformità. Non lo siete perché non dura.
Potete essere un re o un mendicante per sempre? Tutto muta. Ma voi siete
ciò che non muta. Che cosa siete?". Disse Janaka: "Sì, non
sono un re né un mendicante, sono il testimone spassionato" -.
L'ascolto
ininterrotto e quieto scava, tra il senso delle parole e il loro
riverbero nella coscienza, un varco impercettibile, una cesura
sottolineata appena, come le linee di biancore sotto gli occhi dei santi
imbambolati, in certe icone bizantine, scatenano la contemplazione del
vuoto nella forma.
Così
s'innescano nell'ascolto la ribellione della mente ghermita dal silenzio
nella parola e il tumulto del cuore, perché tra la parola e il silenzio
c'è di mezzo la tempesta della vita, l'abiezione della malinconia,
l'impotenza di raggiungere la quiete costante. E l'innocua triade:
mente, coscienza, consapevolezza; il positivo memento: "Sono";
il saggio consiglio: "Se vuoi vivere una vita felice, cerca ciò
che sei", si convertono, al mero ascoltare, in puntute saette che
trapassano il comune buon senso. L'"io sono" assume le
sembianze di un drago apocalittico che ingoia il tempo risputando la
persona a pezzetti; il cosmico metronomo: mondo fisico, mentale,
supremo, in andata e ritorno, con forma e senza-forma, diviene il sordo
rimbombo dei colpi di martello in un'officina metallica dove un mitico
Fabbro, adirato e ossesso, grida Sono Quello!
Smarrito,
sconvolto, lacerate le sue credenze più salde, "Sono nato e morirò",
l'interrogante ricorre all'estremo tentativo di contestare una parola
che l'ha morso e lo attanaglia alla gola: "Perché parlate?".
Maharaj,
a quel punto, convoca il Buddha - ed è una delle rarissime volte in cui
cita qualcuno, a parte il maestro -. Chiama in causa l'Illuminato per
spiegare: l'annuncio è la grande arma. Propagare che possiamo
raggiungere, che siamo già pronti per il salto oltre il nome e la
forma, la nascita e la morte, il pensiero di essere e l'assillo del
non-essere, rende automaticamente immortali; ed è l'unico esperienza
d'immortalità consentita nella condizione umana. Ora l'interrogante è
placato. Ha vissuto nell'ascolto il supplizio del bardo, la vicenda
dell'anima catapultata nello stato intermedio dopo la morte. Quanto
tempo è trascorso? Attimi, minuti, ore? "Com'ero stamattina, prima
di ascoltare? E ciò che ho appreso finirà nel mucchio tra le altre
nozioni, o lo dimenticherò? E che cosa ricordare prima:
"Sono", "Non sono la persona", "Sono
Quello"?". Al valico della domanda "Chi sono?" si
affaccia Quello. L'universo (paramakasa) è la sua sterminata espansione
oltre l'essere e il non-essere; l'interno testimone (avyakta) è la sua
infinitesima concentrazione oltre il corpo e l'io-persona; il quarto
stato (turiya) è la sua indenne dimora, oltre la veglia, il sogno e il
sonno profondo. Come sostanza realissima è essere (sat); come
consapevolezza autofondata è coscienza (cit); come gioia della
completezza è beatitudine (ànanda). Il vero maestro (sadguru) è la
scoperta dell'"Io sono Lui", mentre il molteplice, fuori e
dentro di me, è solo apparenza. L'unica efficace disciplina (sadhana)
è l'imperterrita contemplazione di Lui; qualsiasi altro sforzo gioverà
solo per raggiungere lo sfinimento oltre il quale è il non-fare, il
non-attendere i frutti dell'azione, il non-desiderare quello che già si
ha essendo Lui, il non-dipendere dagli schiavi del tempo: il piacere
come attesa e il dolore come ricordo.
Alla
domanda: quando s'intona un mantra, che cosa realmente accade, Maharaj
risponde: "Il suono crea la forma per accogliere il Sé".
Avvezzo
come ogni indù a convertire le più vertiginose astrazioni in materia
palpitante e concreta, ai suoi occhi il Sé è letteralmente più vicino
del respiro, è il battito stesso del cuore - atman su, atman giù - ma
sempre e solo qui-ora.
Che
cos'è questo Arcano che lampeggia nei Veda, riemerge nel Vedanta, ritma
gli inni, i dialoghi, i canti, gli introiti alla sapienza?
Il
punto al centro del mandala, la "cella" ombelicale nel tempio,
il battito del piede segnatempo, il ritmo ininterrotto del tamburo, la
pupilla saettante e il dito puntato sul cuore della danzatrice
irrigidita, tutti questi mezzi efficaci dell'arte rituale accennano
all'Arcano Maggiore, mortificato dal nome che riceve in traduzione -
trascritto minuscolo o maiuscolo -: sé, Sé, o nei linguaggi buddhisti:
non-sé (anatman).
Da
quali sconfinati abissi della memoria emerge nella sapienza indiana
l'Arcano del Sé?
In
un libro di grande valore, ingiustamente ignorato, Maryla Falk tentò lo
scandaglio del mito psicologico nell'India antica, e quasi ne fu
sopraffatta. Stasi dell'estasi osò definire la Falk il vertiginoso
indiamento che largisce al meditante l'esperienza del Sé. Un'esperienza
in cui "domina la coscienza dell'infinità, ... della cosmicità, e
allo stesso tempo la coscienza dell'io, ma con un carattere di vastità
smisurata che non conosce i limiti della coscienza quotidiana
dell'"io" ".
Ed
è lì, sullo scrimolo che distingue nella veglia la prima dalla terza
persona, e nel sogno l'identità del sognatore rispetto al sognato, e
nel sonno profondo, invece, li rimescola nella placenta dell'oblio, su
quel lembo sottile di coscienza calcata dall'orma della persona, è il
confine insidioso tra follia e sapienza, il discrimine che sconcerta i
"sani" e trascina il folle nei suoi intontimenti orgiastici,
nei cupi deliri, nelle malinconie di pietra. La fredda, pallida
conversione dell'oniromante nel moderno analista è l'unico tentativo di
ripristinare l'antica sequenza: l'io incatenato, il Sé rispecchiante,
l'analista-specchio.
L'ultimo
Jung, sfiorando il pensiero di Ramana Maharshi, fu conquistato da questa
quarta dimensione dell'indiamento, pur riscontrandovi una sorta
d'impareggiabile contraddizione: "... L'India è pre-psicologica.
Quando cioè parla del "Sé", pone un "Sé". La
psicologia non fa così. Non che neghi l'esistenza del conflitto
drammatico, ma si riserva la povertà, o la ricchezza, d'ignorare il Sé.
Ben conosciamo una peculiare e paradossale fenomenologia del Sé; ma
siamo consci del fatto che percepiamo, con mezzi limitati, qualcosa di
sconosciuto e lo esprimiamo in termini di strutture psichiche, di cui
ignoriamo se siano o no conformi alla natura di ciò che dev'essere
conosciuto ".
Jung
non ha incontrato Maharaj. Se si fossero parlati, è quasi certo che il
vecchio gli avrebbe chiesto: "Chi formula la domanda? E chi c'è
dietro la persona che la formula?".
"In
realtà non ci sono persone, ma fasci di memorie e abitudini...";
"Il
Supremo è un unico blocco compatto di realtà";
"La
condizione indisturbata dell'essere è la beatitudine. La condizione
disturbata è ciò che appare come mondo. Nella non-dualità c'è la
beatitudine; nella dualità, l'esperienza...";
"La
realtà è oltre la descrizione. La conosci solo se sei essa";
"...Il
mio silenzio canta, la mia pienezza è colma, non mi manca niente. Non
puoi conoscere la mia terra finché non ci sei dentro".
E
in quel dire il vecchio aduna una forza di gigante, come se dal piccolo
corpo, accartocciato e corroso dagli anni, si levasse una lingua di
fiamma o un brivido di energia che gli elettrizza lo sguardo.
"Non
avete paura di morire?".
"Ti
racconterò com'è morto il mio maestro. Dopo aver annunciato che la sua
fine era prossima, smise di mangiare, senza modificare il ritmo della
vita quotidiana. All'undicesimo giorno, nell'ora della preghiera, stava
cantando e batteva vigorosamente le mani, all'improvviso morì, tra un
battere e un levare, come una candela subito spenta".
Grazia
Marchianò, prefazione a "Io
sono Quello", Rizzoli Editore
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